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mercoledì 6 aprile 2011

il variegato utilizzo del camper

Ho 45 anni e due figli. Mi sono sposata giovane, poi ho divorziato. Per mandare avanti la famiglia ho sempre fatto lavori diversi. Trent’anni a bussare alle porte di ristoranti e locali. Poi un decennio passato in fabbrica, fino a quando la crisi non ha deciso per me. Licenziata. Rimasta a casa senza niente da fare, ho iniziato a cercare impieghi diversi. Da alcuni anni faccio la cameriera, posti e datori di lavoro cambiano in continuazione. Non ho una busta paga, al massimo guadagno 900 euro al mese. Soldi che non mi bastano, ho un figlio e una figlia poco più che adolescenti da mantenere, una casa da mandare avanti. Sul tavolo della cucina accumulo le bollette non pagate: luce, gas, acqua... 200 euro a botta che non posso permettermi. Una storia che si ripete ogni trenta giorni. Per arrivare a fine mese faccio la prostituta su un camper posteggiato in una piazzola di sosta lungo la riviera del Brenta.




Quando serve, per saldare i debiti faccio la vita tra una villa veneta e l’altra. Mi chiamo Rosa, sono italiana. E non sono l’unica a vendersi sul ciglio di quella strada punteggiata dalle fabbriche dei migliori calzolai e pellettieri del paese, simbolo dell’operosità del Nordest, ma anche della malavita locale anni 80 (ricordate Felice Maniero?). La mala del Brenta, appunto.



Per pagare le bollette e la spesa ho chiesto appoggio a un’amica. Maria ha un camper. È a lei che domando ospitalità quando devo arrotondare lo stipendio. Se a fine mese sono in difficoltà alzo il telefono e sento se posso farle compagnia su quella specie di appartamento mobile in affitto che da mesi staziona a bordo strada. Anche lei si prostituisce, e lì intorno ci sono almeno altre quattro donne come noi che passano le giornate su un van aspettando i clienti.



Prostituirci ci permette di vivere. E non siamo le sole italiane a farlo. La differenza tra noi e le altre “puttane per necessità” è che ci siamo organizzate per non correre pericoli: a Padova so che si fanno trovare in un parcheggio di un centro commerciale e che aspettano i clienti lungo i marciapiedi. Lì per esempio c’è una madre di due bambini che esce la sera dicendo ai figli che lavora come barista in un locale notturno fuori città.



Sullo stesso marciapiede c’è anche una signora veronese che ogni notte arriva accompagnata dal marito rimasto senza lavoro e una ventenne della bassa padovana che incrocia le dita a ogni auto che si ferma, sperando non ci sia a bordo qualcuno che conosce. Anche loro dicono tutte la stessa cosa: «Abbiamo perso il lavoro, questa per noi è l’unica alternativa».



L’altra differenza è che loro stanno sulla strada di notte, noi invece lavoriamo con la luce del giorno: abbiamo investito dei soldi e in questa casa per appuntamenti su quattro ruote possiamo chiudere la porta e far finta di essere in ufficio. Il costo dell’affitto si divide a fine mese. Non si lavora mai di sera né tantomeno nei giorni festivi. Sabato e domenica li dedichiamo sempre alla nostra famiglia. Come del resto fanno tutti i nostri clienti.



Ci siamo organizzate così per vari motivi: per paura degli sfruttatori, per evitare i controlli delle forze dell’ordine e per non salire nelle macchine di sconosciuti che potrebbero riservarci cattive sorprese. Siamo solo italiane. Ci conosciamo, ci fidiamo una dell’altra: non ci rubiamo il lavoro, del resto gli uomini non mancano mai. Ogni volta che vado con Maria ci dividiamo tra i cinque e i sei clienti a testa. E quando cala la sera chiudiamo baracca, l’orario d’ufficio per noi inizia a mezzogiorno e finisce intorno alle 18.





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