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sabato 10 novembre 2018

Quale regolatore di carica tra pwm e mppt?

Le differenze in breve:

Un regolatore di carica PWM effettua il trasferimento di energia dai moduli FV tramite impulsi di corrente, durante questi impulsi la tensione dei moduli FV è imposta secondo la tensione della batteria, dunque potrebbe essere differente dal valore di tensione di massima potenza (Vmp) del modulo FV associato. Un regolatore di carica MPPT, invece, effettua una conversione elettrica DC/DC tra modulo FV e batteria, garantendo che il modulo FV lavori sempre nel suo punto di massima potenza (Maximum Power Point) tramite un opportuno algoritmo di ricerca (Tracking). I regolatori MPPT sono dunque in grado di utilizzare tutta la potenza generata dal pannello per caricare la batteria, a differenza dei regolatori tradizionali PWM che inviano alla batteria la corrente generata dal pannello.

Dove usare un regolatore MPPT e dove è sufficente usare uno PWM?

Il regolatore PWM costa qualcosa meno rispetto ad un regolatore MPPT, ma il regolatore MPPT è in grado di sfruttare pienamente un pannello fotovotaico con tensione di lavoro superiore o inferiore alla batteria o pacco batterie associato e quindi consente di produrre maggiore energia rispetto ad un regolatore PWM a parità di pannello fotovoltaico. Se la tensione del pannello è di poco superiore a quella della batteria (tipico caso di un pannello 12V a 30 celle e batteria 12V), il regolatore PWM è sufficente in quanto ha un rendimento simile all'MPPT.

Quali sono i principali vantaggi del sistema MPPT?

1.Maggior corrente di ricarica erogata alla batteria
Per capire questo concetto, occorre innanzitutto specificare che la potenza di un pannello è il risultato della seguente moltiplicazione; (Corrente erogata dal pannello) x (Tensione generata dal pannello)
La tensione di lavoro generata dal pannello è tipicamente intorno ai 16-18V (non 12V, come la tensione di batteria): questo surplus di tensione non viene considerato nei regolatori di tensione tradizionali e quindi è "perso" mentre nei regolatori MMPT viene anchesso sfruttato: 

Ipotizziamo un sistema con batteria da 12Volt associato a un pannello fotovoltaico che, in una certo momento della giornata produca una potenza di 3A. Se stiamo utilizzando un regolatore tradizionale PWM la corrente che viene trasferita alla batteria per la ricarica è dunque pari a 3A per una potenza totale di 36Watt (3A x 12Volt)

 Un regolatore MPPT analizza invece la potenza generata dal pannello (P = V x I, come detto prima), e considera quindi anche la tensione del pannello: se pertanto supponiamo che la tensione del pannello sia in quel momento 17V e la corrente erogata dal pannello è come prima di 3A avremo una potenza totale generata di 51W (3A x 17Volt).

Notiamo quindi che la batteria sarà caricata con una corrente pari a 4,25A (51W / 12 Volt) con il regolatore MPPT, anziché 3A con un regolatore tradizionale, e la ricarica avverrà pertanto con una rapidità maggiore del 30%, a parità di pannello e di corrente erogata. 
In pratica è come se utilizzassimo un pannello da 130W anziché uno da 100W, quindi il maggior costo di un regolatore MPPT viene bilanciato dal risparmio sul costo del pannello.

2) Ampio range di tensione in input (fino a 100V, secondo i modelli): questa caratteristica genera ad esempio la possibilità di caricare una batteria 12V con un pannello progettato per lavorare a 24V, senza perdita di potenza. Infatti, riprendendo l'esempio di prima, ipotizziamo di usare un pannello progettato per lavorare a 24V, che ha valori di tensione di lavoro tipici di 32-36V (valore tipico per potenza pannello superiore a 160W) Vediamo che cosa accade con corrente erogata di 3A:
- la potenza erogata dal pannello è 32,2V x 3A=96,6W
- la corrente di carica della batteria corrispondente ad esempio a 12,1V di tensione della batteria è 96,6W/12,1V= 7,98 A

Notiamo come con una corrente di 3A prodotta dal pannello a 34V riusciamo a caricare la batteria 12Vcon c.a. 8A, grazie al lavoro del regolatore MPPT.
Un regolatore classico PWM non avrebbe effettuato questo innalzamento di corrente, e si sarebbe limitato a trasferire i 3A generati dal pannello, che si sarebbe quindi comportato come un pannello di metà potenza.

Anche in questo caso il maggior costo del regolatore MPPT viene bilanciato dal fatto che un pannello da 180W costa meno di 2 pannelli da 110W, ma che la corrente di carica alla batteria è la stessa.

domenica 4 novembre 2018

Carburanti autotrazione, perché..

L’auto elettrica, oggi, ha diversi problemi. Il primo è produttivo e influisce sui costi finali. La bassa scala di produzione e il fatto che necessiti di linee apposite, visto che i pianali – ossia la parte comune dell’auto tra i diversi modelli che consente la condivisione della linea di montaggio- sono diversi per il vero elettrico – ragionamento a parte deve essere fatto per l’ibrido che con ogni probabilità sarà il “supporto ortopedico” per il claudicante diesel – sono problemi che assegneranno ancora per parecchio tempo all’elettrico il valore di una produzione di nicchia, con gli annessi problemi sul fronte dei costi.


Il secondo è relativo alla capacità d’accumulo delle batterie, della loro filiera produttiva e delle problematiche circa la durata delle stesse, con i conseguenti problemi di ricarica e costi. Se da un lato bisogna dire che i progressi tecnologici sono importanti, e non passa mese che non siano annunciati nuovi sviluppi sul fronte della ricerca, dall’altro lato bisogna essere consapevoli che dalla fase di ricerca a quella dell’industrializzazione, e della diffusione di massa, i tempi sono sempre ancora molto lunghi, specialmente in un periodo nel quale, ovunque nel mondo, langue la ricerca finanziata dagli stati, che ha per definizione orizzonti temporali più lunghi dei venture capital.


Il terzo, non indifferente, è quello delle infrastrutture elettriche, produzione e distribuzione che potrebbero non essere pronte, anzi non lo saranno di sicuro, alla conversione nemmeno del 10% del parco automobilistico italiano che è di circa 37 milioni d’autovetture. La concentrazione delle auto nei grandi centri urbani e sulle direttrici autostradali, porrà, inoltre, problemi circa il dimensionamento delle reti di trasporto che potranno essere adeguate, si, ma lo saranno in base alle richieste. Quindi sull’elettrico per quanto riguarda i “rifornimenti” si entrerà in un circolo vizioso già visto, altri settori industriali, nel quale l’offerta si collega, senza interventi dello stato, alla domanda, ed entrambe languono in attesa di non si sa che cosa. E senza voler andare troppo lontano e rimanendo nel settore della mobilità il caso del Gpl e del metanoper autotrazione possiede esattamente questa dinamica.


Ed è proprio il gas il grande assente da questo scenario. Mentre nessuno nega il fatto che il gas naturale (metano) sarà per i prossimi 15-20 anni il protagonista della produzione elettrica, in attesa che le rinnovabili facciano la loro penetrazione in profondità nello scenario energetico italiano, processo già avviato e inarrestabile. Nessuno prende in considerazione, oggi, nonostante la sua valenza, la possibilità di utilizzo per un paio di cicli di vita delle autovetture, 15-20 anni, del gas naturale.


Eppure per il sistema Italia sarebbe una grande opportunità. Prima di tutto la rete esiste, è pronta e persino quella domestica, con tecnologie consolidate, è utilizzabile per rifornire le auto. Abbiamo, infatti, una rete del gas naturale tra le più sviluppate al mondo che è lunga 35mila chilometri. Ragione per cui non c’è nessun impedimento allo sviluppo della rete aumentando i punti di distribuzione. Oggi siamo a circa 1.000 dei quali nessuno in autostrada, mentre quelli benzina/diesel sono 14mila. Ma c’è di più. Il metano ha delle tecnologie disponibili che consentono il rifornimento anche in casa, con tempi lunghi, ossia si parcheggia la sera e la mattina ci si ritrova con il serbatoio, pardon, le bombole piene e pronte per percorrere almeno 300 chilometri, mentre i tempi per il rifornimento alle stazioni di servizio sono simili a quelli di benzina e diesel.


Ma non è finita qui. L’utilizzo del metano è possibile sia su auto nuove – che sono modelli a benzina modificati, molto simili a quelle odierni e che condividono quindi le linee di montaggio – sia su auto “vecchie”, euro zero comprese, cosa che renderebbe la transizione rapida consentendo anche notevoli risparmi alle famiglie. Sia sul fronte della spesa per “l’adeguamento” al nuovo carburante, sia sul costo per chilometro.


E che dire della questione ambientale? L’allungamento del ciclo di vita delle auto sarebbe un risparmio di risorse non da poco, mentre le emissioni calerebbero drasticamente visto che il gas naturale inquina il 75% in meno di diesel e benzina, ed emette zero polveri sottili, con un abbattimento delle stesse del 70% in ambito urbano – il 30% sono dovute all’attrito degli pneumatici e dei freni, per cui si avrebbero anche con l’elettrico. Per non parlare della possibilità di alimentare le auto con il biogas, cosa che metterebbe le auto all’interno del circuito virtuoso delle fonti rinnovabili a impatto “quasi zero”.


Sul fronte industriale, inoltre, sarebbe una manna. Pochi sanno, infatti, che l’Italia è leader nel mondo per gli impianti necessari al funzionamento delle autovetture a gas naturale, sia come prima fornitura alle case automobilistiche, sia per il retrofit alle auto esistenti. E Fiat, oggi Fca, potrebbe trasformare la propria miopia sul lungo periodo – Marchionne ha sempre ribadito di non voler investire sull’elettrico – poiché ha investito sul metano e ha considerevoli risorse industriali e tecnologiche sul questo fronte. Insomma sviluppare lo zoccolo duro del mercato interno del gas naturale per l’autotrazione sarebbe un vero atto di politica industriale, propedeutico allo sviluppo, alla tutela ambientale e all’export di questi sistemi che avranno di sicuro un notevole mercato. Cosa chiedere di più? E cosa manca quindi?


Semplice: la mano pubblica. Come indirizzo e come semplificazione normativa, si potrebbero mettere anche alcune centinaia d’euro d’incentivi, volendo aiutare le famiglie. Fissando, però, prima i prezzi, per non cadere nel fenomeno, già visto proprio con Gpl e metano, dell’aumento con la presenza di contributi all’installazione e con la diminuzione alla scomparsa degli stessi. Eppure a livello di Governo e di Enti Locali si tace. Il perché é presto spiegato. Il motivo sono le accise sul carburante che pensiamo di pagare per litro, ma alla fine si pagano a chilometro percorso. E per verificare la cosa personalmente basta fare una divisione secondo i consumi, reali e non quelli inventati, della nostra autovettura.


Vediamo. Il peso delle accise sui carburanti, – con riferimento a un prezzo pieno di 1,649 euro – infatti, è nel caso della benzina di circa, 0,728 euro, ai quali bisogna sommare l’Iva del 22% ossia 0,293 euro. Totale tasse 1,021 euro. E allora se con un litro di tasse, pardon, di carburante, facciamo 12 km ecco che a chilometro paghiamo 0,085 euro di tasse. Mica male.


E se usiamo il Gpl? Per questo carburante accise e Iva contano per circa il 45% del prezzo totale e il costo è di 0,499 euro per litro. Quindi 0,225 euro di tasse per litro. Ma vediamo al chilometro. Considerando una resa inferiore del 10%, rispetto a benzina e diesel, ecco che a chilometro paghiamo 0,022 euro. E sul versante metano la cosa è ancora migliore visto che la percorrenza con un kg di gas naturale è del 40% superiore a quella della benzina. Quindi il nostro calcolo va fatto per 17 chilometri e non per 12. Per ogni metro cubo di metano per autotrazione le accise sono molto, ma molto basse, ossia 0,003 euro, ai quali dobbiamo aggiungere però il 22% di Iva. Totale quindi 0,223 euro di tasse a chilogrammo che tradotto in gabelle al chilometro diventano in questo caso 0,013 euro.


Passare quindi da una tassazione di 0,085 euro a 0,013 euro per chilometro per lo Stato sarebbe una “sciagura”.


Questa è la vera spiegazione del perché di fronte allo tsunami del diesel, sul Gpl e metano il silenzio è tombale. E forse gli ambientalisti dovrebbero fare un po’ di calcoli, per iniziare a coniugare la difesa dell’ambiente con quella dell’economia reale, a fianco dei cittadini. Dopo tutto con Gpl e metano, al netto della tutela dell’ambiente, si risparmia, rispettivamente il 57% e il 66%rispetto alla benzina. Insomma declinare il linguaggio della tutela ambientale con quello della crisi.


Storia e scienza dei fanali delle auto

Quando si mettono in moto le prime auto, si accendono le prime luci su un mondo che inizia a muoversi su quattro ruote. E si accendono anche le prime luci sulle auto per illuminare il lungo percorso che oggi stanno attraversando. 
Se però adesso lo fanno confari allo xeno, all’inizio del cammino lo facevano con fari a carburo. Che emettevano una luce bianchissima ed energica seppur meno parsimoniosa e soprattutto molto più pericolosa.

La storia dei proiettori delle auto inizia proprio con una reazione chimica: quella del carburo di calcio (solido inodore) su cui veniva fatta gocciolare dell’acqua con la conseguente produzione dell' acetilene Una scintilla ed ecco che l’acetilene (idrocarburo estremamente infiammabile) si incendiava producendo una fiamma azzurra che emanava una luce bianchissima.
Tutto questo succedeva dentro la parabola del faro dove oggi alloggiano le lampade ad incandescenza (filamento di tungsteno) o a scarica elettrica (gas xeno).

Il reale problema nei primi del ‘900 non era tanto la pericolosità del materiale infiammabile, quanto il fascio di luce intenso che abbagliava chi arrivava dal lato opposto. Si pensò di mascherare la metà superiore del proiettore anche se l’unico effetto sortito era quello di diminuire l’intensità del fascio luminoso che comunque puntava ancora dritto sugli occhi di chi veniva di fronte.

Non ci fu tempo per trovare una soluzione che subito arrivarono i proiettori con lampade ad incandescenza. I fari delle auto, ancora esterni al corpo vettura, diventarono pertanto elettrici ed il loro vetro fu sagomato per creare un fascio di luce coerente dalla geometria nota. La sagomatura permise anche di regolarne l’altezza e la profondità. Comparvero quindi i commutatori abbagliante/anabbagliante attraverso anche l’utilizzo di lampade a doppio filamento.

Siamo negli anni ’30: l’uso dei fari abbaglianti era consentito quando si avevano almeno 100 metri liberi da pedoni o altri veicoli. Come per l’avantreno così per il retrotreno fece la sua comparsa la luce di stop, unica ed arancione. E gli indicatori di direzione erano costituiti da bacchette illuminate da luce arancione poste nella parte laterale del veicolo che si azionavano attraverso un comando a mano, uscendo dalla carrozzeria in posizione orizzontale. La luce della targa doveva permetterne la lettura, di notte, da una distanza di almeno 30 metri.

Anni ‘50: i fari iniziarono a far parte del corpo vettura e le parabole scomparvero all’interno della carrozzeria. Siamo ai tempi della Fiat Topolino C quindi della Fiat 600, Alfa Romeo fu la prima marca a montare doppie parabole sull’avantreno per i due tipi di fasci, abbagliante e anabbagliante. Quindici anni più tardi comparvero i fari allo iodio e la luce delle auto tornò ad avere una colorazione più bianca, anche se il bianco dei primi fari a carburo non venne raggiunto.

Fari auto moderni.

Questo nuovo sistema di illuminazione si vide nelle berline di lusso degli ultimi anni ‘60, quando i nuovi schemi stilistici e le nuove tecnologie di costruzione permisero la realizzazione di fari quadrangolari, come era per la prima Fiat 125. Se il passo successivo è stato cavalcato dall’adozione dei fari a scarica elettrica, quelli contenenti gas xeno (che, spostando lo spettro luminoso più vicino all’ultravioletto attraverso una reazione fisica, rendono un colore ancora più bianco rispetto a quelli allo iodio che invece sono ancora ad incandescenza), la novità degli ultimi tempi ha riguardato i materiali con i quali tutt’oggi si realizzano i proiettori: la plastica (policarbonato o polimetilmetacrilato). 
Il nuovo materiale permette di realizzare proiettori in grado di veicolare il fascio di luce attraverso la parabola (che non ha più solo la funzione di riflettere la luce verso avanti, ma anche quello di costruirne la corretta geometria) e di aumentarne l’intensità, dato che la plastica assorbe meno energia luminosa, evitando al contempo che la stessa si trasformi in calore.. Un fanale di plastica non si scada. I vecchi fanali di vetro, una volta accesi, scottavano. Col nuovo polimero le forme dei fari delle auto possono assumere conformazioni talvolta stravaganti contribuendo in maniera decisiva a delinearne lo stile.

Siamo tornati a produrre la luce bianca dei proiettori a carburo che a distanza di un secolo torna a noi più profonda che mai, col suo bagaglio di storia e di figure importanti, di personaggi che potevano permettersi il lusso di accendere i fari delle loro auto. Fieri ed orgogliosi. E se non conosciamo la storia che sovente si ripete, basterà un raggio di luce ad illuminarla; cosicché capiremo che tutto ritorna

sabato 3 novembre 2018

Quando in auto c’era il riscaldamento a carbone


Tornando indietro ai giorni di automobilismo prima della Seconda guerra mondiale, alcune macchine avevano un sistema di riscaldamento. La tecnologia in questo settore era agli albori e si trovavano le soluzioni più strane.
Ma in realtà, un riscaldamento a carbone d’epoca era un’opzione rara, e pericolosa, come dimostrano i primi riscaldatori che erano alimentati a benzina, ma in ogni caso molte persone non potevano permettersi di pagare il costo extra per avere un riscaldatore montato. La stragrande maggioranza non poteva nemmeno permettersi un’automobile in realtà.
Una possibilità alternativa, comunque, era una scatola riscaldamento, che è stata venduta sul mercato principalmente tra gli ani 20 e gli anni 30.

Questo accessorio, come la maggior parte degli oggetti dell’epoca, veniva realizzata in acciaio e ricoperta con uno strato di tessuto.

Un cassetto di metallo scivola fuori il lato in cui il proprietario dell’auto poteva inserire una mattonella di carbone da accendere.
Il calore all’interno sarebbe poi fuoriuscito attraverso piccoli fori su entrambe le estremità della scatola. Che poi andava appoggiata sul pavimento e così poteva riscaldare i piedi e le gambe del guidatore e dei passeggeri.
Misura circa 35 centimetri di lunghezza, e possiamo immaginare che non emanasse poi un grande calore nell'abitacolo. Sempre meglio di niente.
Guardando alle automobili moderne, possiamo immaginare l’evoluzione della tecnologia nelle auto d’epoca. Una cosa comune come il riscaldamento, una volta non era per niente scontata. Invece, si nota anche come il mercato aftermarket sia nato molto presto, e goda di buona salute ancora oggi.